Tutti i Paesi del mondo si basano sul principio di sovranità nazionale e in base a tale legittimo principio ciascuno Stato è libero al suo interno di definire le modalità con cui governare i propri cittadini, nonché le persone che risiedono stabilmente o meno nel proprio territorio. Ciascuno Stato, pertanto, attraverso la promulgazione di leggi, tra cui anche quelle fiscali, decide come tutti i soggetti presenti sul suo territorio si debbono comportare.

Per incentivare le attività commerciali e imprenditoriali tra due Stati, ci si è resi conto della necessità di gestire il fenomeno della “doppia imposizione”, ovvero quel fenomeno che proprio in base al principio di sovranità nazionale si andrebbe a compiere, tassando un operatore economico per la stessa operazione qualora risieda in uno Stato ma realizzi i suoi proventi in un altro Stato; per esempio nel caso di una impresa dello Stato A che in base a un appalto costruisce un immobile nello Stato B a fronte di un corrispettivo che paga un residente dello Stato B.

Per evitare tale fenomeno vengono quindi stipulati degli accordi tra gli Stati; tali accordi prendono il nome di “Convenzioni contro le doppie imposizioni e la prevenzione dell’evasione”. Le Convenzioni sono quindi trattati internazionali bilaterali con cui gli Stati contraenti, in accordo tra loro, regolamentano come tassare i redditi dei propri residenti qualora operino in entrambi i Paesi.

Salvo gli Stati Uniti di America, che utilizzano un proprio modello, tutti gli altri Stati redigono le Convenzioni prendendo a riferimento il modello OCSE o quello ONU. Il modello OCSE è quello preferito dai Paesi più avanzati (e ricchi), mentre quello ONU è quello preferito dai Paesi in via di sviluppo (e tendenzialmente più poveri).

Le Convenzioni vengono stipulate dai rappresentanti dei due Governi e ratificate dai Parlamenti di ciascuno Stato. La Convenzione tra Italia ed Emirati Arabi Uniti è stata sottoscritta ad Abu Dhabi in data 22 gennaio 1995 e ratificata in Italia dalla Legge 28 agosto 1997 n. 309; ed è in vigore dal 5 novembre 1997.

Esistendo quindi una convenzione contro le doppie imposizioni che implica anche la possibilità di uno scambio di informazioni e un coordinamento tra i due Stati per la repressione dell’evasione e dell’elusione, perché gli Emirati Arabi Uniti sono tuttora nella black list e considerati un paradiso fiscale?

In effetti la situazione per questo Paese, rispetto al fisco italiano, è particolare. Un paradiso fiscale è definito tale non solo perché gode di una bassa tassazione, ma, e soprattutto, per la sua opacità (ovvero la caratteristica di non rendere noti i beneficiari effettivi delle società e mantenere il segreto bancario). Oggi la maggior parte dei Paesi ha rinunciato a tali possibilità, in particolare per quanto concerne lo scambio di informazioni e il segreto bancario. Non altrettanto si può dire per il livello di tassazione che è molto variegato anche all’interno dell’Unione Europea (si pensi al 12,5% dell’Irlanda rispetto al 24% dell’Italia).

Gli UAE, sotto il profilo dell’interscambio di informazioni, sono rispettosi della normativa internazionale, nonché di quella scaturente dalla Convenzione, ma applicano un livello di tassazione pari a zero, salvo che per le attività connesse al settore petrolifero, bancario e assicurativo.

In Italia, in estrema sintesi, la normativa prevede che nel caso in cui in un Paese dove un residente italiano produca un reddito che per norma pattizia sia tassabile in tale Paese, ma il suo livello di tassazione sia inferiore al 50% di quello praticato in Italia, si debba tassare tale reddito in Italia.

Pertanto, se attraverso una società collocata negli Emirati, di cui un soggetto residente in Italia detiene il controllo, consegua un reddito, non essendo tale reddito assoggettato ad alcun prelievo (tranne che non sia una società nel settore Oil & Gas, bancario o assicurativo), dovrà essere tassato in Italia sul presupposto che il livello impositivo è inferiore di oltre il 50% rispetto a quello italiano.